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‘800 I COLORI DEL NERO Grafica europea dell’Ottocento docufilm



COMUNICATO STAMPA A cura di Francesco Ruggiero la Prima Edizione della Rassegna sulla Incisione Europea dell’Ottocento dal titolo ‘800 I COLORI DEL NERO Grafica europea. Ne parliamo, approfondendo la disciplina artistica, con Guido Giuffrèrassegna in cui tanto, mirabilmente, è detto, e altrettanto suggerito ... Arnoldo Ciarrocchi una lastra nera ti sgomenta come una tela biancaGiuseppe GattL’incisione è una tecnica che, al pari di altre tecniche, disegno, pittura, mosaico, scultura …, ed ove l’artefice ne sia all’altezza, è in grado di esprimere autentici capolavori … insieme a Renzo Vespignani Una matita poco appuntita mi paralizza un pennello grosso mi par buono per il barbiere, chissà perché la lastra non mi atterriva quanto la tela …, Gianpaolo Berto le misure ideali di una stampa incisa sono quelle della paginetta di un libro di preghiere, di un messalino, … Giuseppe Selvaggi cercatore di stampe, come strumento di godimento e di conoscenza, con patiti illustri e sommi, quali Goethe … e Vinicio Prizia l’Incisione è il linguaggio dei segni, una espressione unica tutt’ora insostituibile.

GUIDO GIUFFRE’ ‘800 I COLORI DEL NERO Grafica europea dell’Ottocento

Per la coincidenza dei nomi – tra incisori e pittori – uno sguardo appena sistematico all’incisione europea dell’Ottocento, che pure non voglia darsi come profilo storico, resta sin dai primi passi impigliato nelle infinite ramificazioni, non foss’altro geografiche e cronologiche, appunto della pittura. È inevitabile e non è poi gran male; il ceppo poetico resta il medesimo, la radicale diversità dei linguaggi non lo stravolge. Del resto l’incisione originale alla ricerca di una sua problematica definizione è stata pure chiamata, è noto, gravure de peintre. Anche in una Mostra come questa, sguardo a volo d’uccello che non esaurisce, ne scevra, anzi pareggia fuor di misura, ed è tuttavia umorosissimo, nomi come Fontanesi, Fattori e De Nittis, Goya, Manet, Pissarro, a citare quasi alla rinfusa, e Whistler o Munch o Ensor o Corinth, troppo rimandano a vicende articolate e note nella storia della pittura per non sottenderne il corso dietro il quasi alibi dell’incisione. Anche a voler percorrere con quei nomi e con innumerevoli altri un binario parallelo e autonomo, com’è giusto e si è fatto sovente, resta pressoché invincibile il riferimento ai medesimi snodi della pittura, alle vicende culturali comuni, alle convergenze o divergenze, e a un riscontro insomma costante. È vero che non poche presenze nel campo incisorio vivono, come dire, di riflesso: Cézanne, per fare soltanto un nome. Delle sue cinque acqueforti, cui lo indusse Gachet, la Tête de jeune fille qui esposta, commovente non sai se per qualità sua propria o per considerazioni estrinseche, l’autore, l’occasione, quell’estate del ’73 trascorsa a Auvers, è forse il meglio; delle altre resta la pochade amusante del Guilaumin au Pendu, come l’ha chiamata Michel Melot, già conservatore dell’immenso deposito di stampe della Biblioteca Nazionale di Parigi, o le riprese da quadri suo proprio dello stesso Guillaumin. Cézanne incisore, dicevo, non è che l’eco impercettibile del gigantesco pittore. Lo stesso è per le quattro prove di Sisley, e lo stesso, sia pure cum grano salis, si direbbe di Corot, che, affezionato al clichè-verr, nelle pure magnifiche quattordici incisioni si limitò sovente al solo tracciato della punta lasciando ad altri il resto del procedimento (anche se il Souvenir de Toscane lo si incontra riprodotto in uno stato precedente a quello qui esposto). L’afflato ancora romantico del Corot non soltanto incisore fece presa su gran numero di acquafortisti, francesi e no, del secondo Ottocento; e non vi si sottrasse, sia pure per breve tempo, lo stesso Pissarro, che nonostante solesse diminuirsi (iene suis pas graveur, scriveva al figlio Lucien, ie ne le fais que par passetemps) resta – a parte il rovello sperimentale e la statura di Degas, da cui egli trasse non poco – il più incisore tra gli impressionisti. Era un’aria, idealizzante ben più che realista, che circolava tra Barbizon e il Delfinato, come ha giustamente rilevato Giubbini, e che anche per il tramite di Daubigny coinvolse, tra gli italiani, sopra tutti quel grande maestro che era Fontanesi. Il foglio a prima vista più corottiano, tra gli italiani in mostra, è quello di Vittorio Avondo. Al ’70, data di questa Campagna romana, Avondo aveva da tempo conosciuto Fontanesi, a Ginevra, e attraverso lui quell’area francese, Appian, Daubigny, che pervenne anche a Beccaria, a Bignami, Rayper. Nell’unico foglio esposto di Avondo la natura spiega tutta la maestà, gli spazi solenni, i silenzi che erano stati linfa portante dei barbizonniers; e nel calibratissimo coagulo degli scuri sulla luce dilagante adombra quell’incanto che, magari percorso da venature mistiche, aveva costituito fascino e rischio, variamente, di tante radure, stagni, querce e paysans dello stesso Corot, di Millet, di Rousseau. Il foglio di Avondo resta stupendo; come i “colli” coevi di Beccaria: mirabili nella schiettezza dell’aspro e terso paesaggio, e più ancora in un segno che ama e fa rivivere la tradizione piuttosto che sondarne i punti di crisi. Come ancora, i livelli alti di un’enfasi e di un raccoglimento che concludevano una lunga stagione, i fogli densi e caldi, filtrati, alitati, di Ernesto Rayper. Capostipite italiano di codesti maestri era stato Antonio Fontanesl, erede a sua volta dei francesi cominciando, appunto, da Corot. Ma Fontanesi, la cui cultura va allargata ad Appian, a Daubigny, a Jacque, a Millet, nell’acquaforte raccoglie la lezione anche del Corot pittore: che si articola in un’evoluzione solo in piccola parte rispecchiata nelle incisioni. Il maestro italiano aveva inciso lastre di corottismo puntuale fin quasi alla citazione, ma il foglio qui presentato mostra una saldezza e compattezza di forme e di segno di tornita plasticità, che era del “pittore” francese nel suoversante più “classicista”. Nei nomi citati il panorama italiano offre un aspetto relativamente omogeneo, ma nella globalità esso è assai più composito. Anche a tacere di Fattori, che fu il maggiore del secolo, i due fogli di Signorini dicono in sintesi anche troppo serrata vuoi l’enorme differenza di mondo poetico che lo separa dai maestri piemontesi, liguri, lombardi, vuoi il mutare, pure quasi contestuale, della sua stessa visione: dalla scandita razionalità di una Pistoia rasciugata di sole e di segno, allo spazio sconfinato e brulicante di quel piccolo capolavoro del ’73 che è “Primavera”. Ma sia pure in sommari colpi di flash la rassegna dice tant’altro: ad esempio come nel foglio prestigioso di Mosè Bianchi torni tuttavia l’aneddoto che gravò tanta parte del- l’arte nostra nel secolo scorso; ovvero – e quanto di più – nell’esotismo di Alberto Pasini, nei vezzi tecnicamente agguerriti, di Michetti, di Eleuterio Pagliano, di Antonio Piccinni. Più ancora (per la statura degli artisti e perché era quella la terra prescelta dagli astri per la rivoluzione dell’arte contemporanea) la situazione si differenziava tra i francesi. La calda e calma passione dei pittori di Barbizon, da cui tanto tra­ passò in Italia, era già del tutto rinnovata con Daubigny: che pure nasceva dalla medesima costola. Lo mostrano anche soltanto i due fogli esposti, il “Sorgere della luna” del ’61, così fortemente millettiano, e la “Spiaggia di Villerville” (pubblicata nella Gazette des Beaux Arts del maggio 1874), dove lo spazio allenta le densità che erano state insieme atmosferiche e morali, e in un segno alleggerito dalle morsure fugaci si disfa nelle svaporanti lontananze; e meglio lo mostrerebbe la più celebre delle sue incisioni, quell’ “Albero dei corvi” del ’67 dove, ben più dell’iconografia, è la tensione del segno quasi gestuale a suggerire una premonizione vangoghiana. Ancora tra i nati nel secondo decennio Rousseau era una sorta di patriarca, e le “Querce di roccia”, penultimo e miglior foglio della sua breve serie di quattro, dice tuttavia come da lui venisse la religione della natura, non un rinnovamento della visione. Adolphe Appian, di cui sono in mostra due fogli di eccellente e severa fattura, raggiunse un segno anche più nervoso e libero, toccando ad esempio oltre le opere esposte, in certi “Dintorni di Rix” del ’65, una straordinaria modernità. Ma per articolare il panorama francese non occorre andare alle generazioni seguenti, ne, ancor meno, raggiungere gli impressionisti. Era a Parigi una fioritura di esperienze che la fondazione della Sociètè des Aquafortistes, nel 1862, non fece che consacrare. Per citare solo un nome, Bracquemond, presente con un paesaggio del ’68 sobrio e stupendo – da quel grande incisore che egli era – già negli anni cinquanta aveva dato saggi acutissimi, vuoi nella serie degli animali, metafora di una critica sociale assai diversa che nel Daumier litografo, vuoi in certi esiti rembrandriani ma di uno sperimentalismo visionario e tumultuoso (bene esemplificato dai “Due alberi al tramontar del sole” del ’55). O ancora, per andare a un estremo opposto, “il mondano Helleu”, come lo chiamava Carlo Alberto Petrucci, che nelle brillanti puntesecche esposte è quasi un Gavarni che avesse conosciuto Degas e Renoir; o Gavarrni stesso, che non è soltanto l’anagrafe ad accostare – si parva licet -al grande Daumier. Ferma restando la generazione degli impressionisti, che perde nel campo dell’incisione le specificità formali proprie della pittura ed evocate nello stesso nome: da Manet, che in pochi anni, intorno al ’60, incise quasi tutta la settantina di sue acqueforti, ma trasponendovi quasi sempre i suoi dipinti (come è per entrambi i fogli qui esposti); al già citato Pissarro, il più fecondo, cui tanto giovò il sodalizio con Degas (purtroppo assente e forse basterebbe il capolavoro rembrandtiano dell’autoritratto del ’57 – il maggiore del gruppo). Ma il titolo della presente rassegna (“Da W. Blake a E. Munch”) reca in testa e in coda al suo percorso due nomi ne italiani ne francesi, come sono invece quelli spesi finora in queste brevi divagazioni. Anche nel dominio dell’incisione gli scambi erano rilevanti in tutta Europa, e quando dopo il ’60 l’editore Cadart, cofondatore della Sociètè, moltiplicò la sua attività tenendo il campo per almeno due decenni, le relazioni coinvolsero gli Stati Uniti. I nomi giravano e l’interesse cresceva, ma non è necessario giungere a Munch o Ensor per un rovello sperimentale quasi connaturato al mezzo: se HercuJes Seghers l’aveva esercitato quasi tre secoli prima, Blake, grande innovatore, era quasi coetaneo di Goya, che al chiudersi del secolo di Hogarth e di Piranesi compiva l ‘affondo forse più radicale in tutta la storia dell’incisione. Ma le incisioni di Goya, oggi notissime e qui rappresentate da due fogli superbi tratti dai ventidue Disparates, covarono sotto la cenere per decenni, liberando tutto il loro potenziale forse soltanto nel secolo nostro. L’attività dello spagnolo coincise in parte, cronologicamente, in Inghilterra, con quella visionaria di Blake, e con quella di Turner, il cui Liber studiorum non raccolse tuttavia le accensioni fantastiche della pittura. Ma dei vortici turneriani è traccia non foss’altro nel The Bridge, Chaors di Brangwyn, dove i velluti notturni e profondi delle “barbe” di pun­ tasecca sono eco di ansie segrete. Caso inglese assai singolare è quello di Francis Seymour Haden, pervenuto all’acquaforte dalla chirurgia, che smentendo ogni ipotesi dilettantesca incise duecento rami straordinari. Lo dicono anche i fogli in mostra, Egham Loock, che in umorosa semplicità offre il quieto e respirante approccio alla natura che era stato di Constable, e il più complesso, schietto e insieme analitico Old Chelsea, che rivela quale amore l’artista avesse nutrito per Rembrandt e quale lezione ne avesse tratto. Il breve panorama tedesco corre tutto all’insegna di un realismo confinante vuoi col populismo, vuoi, all’opposto, col mito. Equidistante ne è Lovis Corinth, che nell’acquaforte del ’96 veste irresistibilmente il classicismo ingresiano di un naturalismo turbato di psicologismi (a quella data Munch aveva già scandalizzato Berlino), e, fermandoci ai soli pezzi esposti, nella più tarda vernice molle sembra conoscere Schiele e presentire Kokoschka. Anche Liebermann non forza i termini della natura, e in Die badenden knaben rende quasi in chiusura di secolo, con segno perentorio e rapido, quanto impressionismo poteva attecchire in terra tedesca: dove meglio cresceva un realismo che nel ritratto del padre Peter Halm sonda con punta acuta ed argu ta, e Wilhelm Leibl, in uno dei fogli più belli dell’intera rassegna, le Due vecchie del ’74, scava, sofonde e contempla con sguardo degno, nel secondo Ottocento, di Rembrandt. Populismo, si diceva: che le acqueforti della Kollwitz – tra le più eff icaci a cavallo del secolo, vedine il ciclo della Rivolta di tessi tori cui appart iene L’assalto, qui esposto, del ’97 – e gran parte delle litografie, riscattano da retorica e didascalismo. E mito: sul filo del quale regna sovranamente Max Klinger con quella perfezione tecnica e quella esauriente accuratezza di tracciato che sono pregio e difetto tipicamente tedeschi, come forse troppo severamente ma impeccabilmente scrisse Petrucci. E a Klinger la mostra affianca Otto Greiner, che – tra la “perfezione” klingeriana e i sogni più ancora assorti, turbati e profondi che tra Firenze e Fiesole Boecklin bagnava allora di luce italiana, nell’acquaforte del ’92 collocava i suoi fauni fuggenti in una frequentabile quotidianità. Questo rapidissimo sguardo alla mostra volge al termine; anche gli ultimi maestri, come i primi, sono rappresentati da poche opere. Certo la quantità non è tutto. Quando nel 1816 lngres incise la sua sola acquaforte, mirabile, com’era nella sua natura, in Europa imperava l’Accademia dei bulinisti e a Roma Bartolomeo Pinelli profondeva – e da Roma in tutto il mondo dei turisti amatori – le sue celebri stampe: che in questa mostra non rimpiangeremo. La ben nota Battaglia degli speroni d’oro del belga, per la quale è stato richiamato Callot, dice non poco del suo linguaggio irruente e controllato, del suo segno sottile e dell’irrefrenabile vena fantastica; ma già da quasi dieci anni – nella sua prima lastra – Ensor aveva reso omaggio al grande olandese del Seicento, ne aveva isolato e potenziato la vena satirica e corrosiva, aveva raccolto nello sguardo tagliente Ia enorme misura analitica e visionaria della famosa Cattedrale, dato fondo al realismo più asciutto e all’enfasi più infernale, e insomma s’era accreditato artista e incisore tale che la sola Battaglia suggerisce. Ed era, Ensor, tutto l’opposto di un altro belga appena meglio rappresentato, Fernand Knopff, quasi suo coetaneo, del quale due puntesecche bene adombrano la sognante magia; sfiorava, Knopff, l’area art-nouveau, Ensor incarnava già l’espressionismo. Di Danimarca, Svezia e Norvegia – a completare il quadro geografico – sono presenti tre artisti. Le due acqueforti di Carl Larsson di segno volutamente elementare emanano quella malia, quella interna lentezza facilmente riconducibili alle serali Luci del Nord non ancora risucchiate nei vortici munchiani. Anders Zorn , aveva detto a suo tempo Edward Alkmann, rende ciò che vuole avec la suretè de la glace, mais aussi parfois avec la froideur qui l’accompagne. Codesta freddezza volge nella Rosita Mauri alla mondana amabilità che il segno spietato – condotto con veemenza persino furiosa, scrisse Luigi Mallè in occasione della non dimenticata rassegna torinese del 1968 – riscatta appena; nel Billy Mason senateur americain (non pari a) bellissimo Ernesto Renan del Gabinetto delle Stampe degli Uffici) tenta la psicologia. Di Munch infine, termine ultimo ed alto della rassegna, quasi a sfidarne la complessità, le premonizioni e le tangenze, l’enorme bagaglio calcografico, litografico e xilografico raccolto a vantaggio di tutto il ‘900, i curatori offrono l’escamotage di due puntesecche del ‘905 e del ‘906, di cui la seconda riporta ad uno dei figli del Dottor Linde, che Munch aveva ritratto in un’altra puntasecca di quattro anni prima. Che è modo sornione di chiudere una rassegna in cui tanto, mirabilmente, è detto, e altrettanto suggerito.

GIUSEPPE GATT ‘800 I COLORI DEL NERO Grafica europea dell’Ottocento

Nell’ambito delle Arti figurative, quando si parla di Grafica, si fa oggi comunemente riferimento, agli esiti del trasporto su materiale cartaceo di una immagine incisa, peraltro con diversi metodi, su una matrice costituita da materiali diversi, legno, metallo, pietra … L’incisione è una tecnica che, al pari di altre tecniche, disegno, pittura, mosaico, scultura …, ed ove l’artefice ne sia all’altezza, è in grado di esprimere autentici capolavori. La Storia dell’Incisione viene da molto lontano ed esiste una imponente trattatistica specializzata alla quale ovviamente si rimanda. Questa opportunità fornisce uno spaccato molto interessante del livello qualitativo raggiunto da alcuni grandi Maestri dell’800, con la semplice utilizzazione del bianco e del nero, servendosi cioè di una matrice, di un inchiostro e di un foglio di carta. Chi osserva una Incisione deve soprattutto tenere presente che questo tipo di Opera d’Arte non è un disegno riportato su legno o metallo o pietra; si tratta, invece, di un qualcosa pensato esplicitamente per la materia con la quale si intende realizzarlo e di questo materiale è necessario saperne utilizzare sino in fondo le qualità, le risorse e le possibilità espressive: lavorando, oltre tutto, a distanza ravvicinata e con i continui rischi dell’esecuzione speculare. Le Opere presentate sono state eseguite da Artisti dell’800 resi celebri dalle loro produzioni pittoriche o di Scultura; e a queste produzioni va quindi ricondotto il senso delle rispettive rappresentazioni di forme e valori ricondotti, con l’Incisione, a un sistema di segni lineari. Naturalmente, ogni Artista consegue un proprio sistema, e quindi, una propria grafia che rispecchia fedelmente la personale visione dell’Arte in un momento di Storia e di Cultura che lo colloca, appunto, nell’800 europeo. In questi anni nasce il senso del sublime, del misterioso, del fantastico e dello smarrimento di fronte all’infinito; ed è in questo clima che la Filosofia, la Letteratura e l’Arte cominciano a penetrare l’universo dell’intimo, a indagare i segreti dell’animo umano. L’Incisione si fa allora strumento prezioso per questo scavo nel profondo e la ricerca interiore suscita anche l’interesse per le diverse età della civiltà artistica. Affiora così la visione nostalgica del classicismo, la passione per il mondo gotico nonché l’acuta curiosità per le civiltà primitive, africane, oceaniche. I grafici del XIX secolo si ispirano a quell’epoca e a quella concezione dell’Arte che più avvertono vicine al proprio sentire. Le tematiche non di rado sono desunte dall’antichità classica; tuttavia la visionarietà che le pervade è decisamente romantica, risolvendosi ogni immagine in simbolo dell’interiorità dell’Artista. Inquietudine e fantasia introducono talvolta tenebra e senso della allucinazione, trasformando la serenità del mondo antico in angoscia nostalgica per un remoto passato: atmosfere lunari e rarefatte, rovine, drammatici paesaggi di foreste e di rocce. Nel suo complesso l’Incisione europea si qualifica sino agli albori delle Avanguardie per un’improvvisazione di eccezionale freschezza e di esattezza esecutiva; non indulge in reminiscenze classiche ed erudite, soffermandosi invece sulla limpidezza atmosferica dei paesaggi, sui cieli trasparenti e sul cangiantismo delle campagne: atmosfere intatte che bloccano, come in un fermoimmagine, tutta la realtà. Con tratto sicuro, le matrici sono costruite per masse, immergendo l’immagine in una luce di estrema morbidezza, modellata con innumerevoli sfumature; la composizione esibisce una inconsueta classicità, non ricavata dall’antico bensì dalla attenta osservazione della realtà quotidiana. Sul finire del Secolo si affaccia con violenza il contrasto tra il bianco e il nero; appaiono le immagini delle angosciose visioni notturne; i sogni si concretizzano in realtà ambigue; emergono figurazioni complesse e tenebrose, dove l’umanità si mescola alla vita organica ed inorganica. Anche quando l’atmosfera si schiarisce e la tensione delle forme si va placando, il vigore corrosivo dei significati permane, preannunciando la svolta che la Grafica delle avanguardie svilupperà fino al secondo dopoguerra.

GIUSEPPE SELVAGGI ‘800 I COLORI DEL NERO Grafica europea dell’Ottocento

Per il lettore di immagini, a volte opposto del lettore dello scritto che può essere anche auditivo e non visivo, va posto un interrogativo aprendo lo splendore delle immagini raccolte in questo libro-catalogo, a sua volta trasposizione di immagini esposte in parete. In mostra d’arte. L’interrogativo è affascinante per la diversità delle risposte possibili. Va posto dopo aver considerato che l’avvento della Fotografia, le magie tecniche dei mezzi della riproduzione delle immagini, l’intero sviluppo della nostra civiltà visiva appena agli inizi, sino a prevedere prossimi paesaggi e figure, atmosfere e ritmi quali il respiro della natura riproducibile nella nostra solitaria stanza del sonno o del divago o del lavoro, tutto fa pensare a nuovi rapporti uomoimmagine. Siamo dinanzi ad una raccolta di Carte d’Arte, opere variamente incise e riprodotte, con firma d’Autore o, quantomeno, con la sicurezza dei loro Autori. Però siamo lontani dal classico cercatore di stampe, come strumento di godimento e di conoscenza, con patiti illustri e sommi, quali Goethe. La raccolta di incisioni e altre proposte d’Arte in esemplari multipli, anche se ci sono i monoesemplari, non serve più come documento, quali le antiche riprese su lastra di pietra o disegno replicato riguardanti persone, paesaggi, rovine, città, progetti. Oggi, a parte gli aspetti del mercato quale rarità, siamo in situazioni tanto diverse. Eppure, lo dimostrano le grandi aste internazionali riguardanti, citando due quasi nostri contemporanei, firme quali Man Ray o Andy Warhol, persino riproposte meccaniche di immagini sino alla polaroid, c’è la gioia del Collezionista oppure l’emozione dell’innamorato di immagini, si diceva un tempo amatore, a sostenere l’intatto fascino di un foglio comunque nato da un Artista. Comunque prodotto, comunque riprodotto. L’interrogativo: qual’è la segreta, quasi intima e a volte inconscia, attesa che produce piacere in chi possiede, tocca con le mani, o quantomeno con gli occhi un foglio di questa natura? Il segreto è limpido. Lo viviamo, per trasposizione, anche sfogliando e poi bevendo con lo sguardo queste immagini. Il godimento estremo, certo, è nel possesso totale. Amore compiuto. Quale la spinta a tale atto d’amore visivo? Quale l’interesse che si trasferisce, anche, nel collezionismo e quindi nei valori di mercato? È il sapere, ed avvertirlo in ogni senso, persino tattile in casi di possesso o di sola occasione di toccare l’Opera, che il Foglio ha avuto un contatto fisico con l’Autore dell’immagine. Da qui la diversità e la maggiore quasi assoluta presa di un Foglio con tale carisma di rapporto diretto con I’Artista, nei confronti di altra riproposta della stessa immagine con strumenti e risultati magari straordinariamente più efficaci alla vista. Ed alla comodità, come saranno le immagini d’arte disponibili nei prossimi strumenti visivi. Chi tocca, chi guarda, sa in cuor suo e in mente sua, con dinamismo di incontro tra intelligenza ed emotività, che quel Foglio è stato contattato fisicamente dall’Artista. Quindi il multiplo non è una riproduzione da mani altrui, anche se nell’insieme tecnico, in gran parte, spesso lo è stato. La firma opera il suggestivo rapporto di presenza nel foglio dell’Artista, fisicamente. Le Sue mani. Il Suo guardare. Il Suo consenso. Questo è ben chiaro nelle grafiche di oggi, in massima parte firmate e numerate dall’Artista. Nel riandare all’Ottocento, e prima, possono mancare la prova della firma e quella della numerazione. La situazione è ancora, in un certo senso, fredda con la grafica incisoria ricavata da illustrazioni librarie. Quali le stampe di Dorè nelle edizioni di quando l’Artista era in vita. In taluni casi il rapporto, ed accade per le illustrazioni-incisioni di antiche edizioni, il rapporto emotivo e di possesso si trasferisce anche nello Stampatore, se passato alla Storia delle Arti. Il possesso visivo è la realtà che rende viventi le Arti figurative. Il possesso, di proprietà o di vista diretta sulle pareti dei Musei, delle Chiese, dei Palazzi con collezioni, delle Mostre, ha una struttura lineare con le opere uniche. Si sa, per documentazione o per fiducia, che l’Opera è del tale Pittore o Scultore o, nei nuovissimi casi, persino del Fotografo. Lastra o pellicola da lui elaborate dopo lo scatto. Il possesso visivo è una realtà, invece, che va ricreata e adattata alle diverse situazioni, quando si tratta di avere fiducia per immagini firmate solo in lastra, o senza nemmeno tale firma. Come spesso in passato. Il discorso porta lontano, sino all’Eros visivo tramite l’immagine. Sino, ed è questione antica, all’incontro di preghiera, con l ‘immagine sacra. Il possesso visivo è automatico nei casi di intensità di ammirazione. È razionale, anche, per le Opere uniche e per i Fogli d’Arte incisoria, sino alle derivazioni a stampa o serigrafate, purché di numero dichiarato. Deve essere chiaro a chi guarda o detiene di essere un amante, se non unico, privilegiato. Questo libro e la Mostra per cui è stampato sono documento di una selezione dell’immagine grafica o disegnata con intento e risultato d’Arte. L’analisi del periodo, degli Autori è cosa a parte. Qui si voleva solo affermare che l’incisione, la xilografia, la serigrafia come ogni altro strumento d’Autore per fare grafica sono, sempre, attualità. Attualità nel segno della vita. I fogli pur multipli sono carta viva. Come le tavole, le tele ogni altro spazio su cui ha posto mano diretta l’Artista. Con tale coscienza, anche il solo sfogliare il catalogo produce emozione. Più oltre, toccando o possedendo o solo vedendo il foglio originale, entriamo nell’Eros d’Arte. Siamo allo stadio di amatori.

RENZO VESPIGNANI ‘800 I COLORI DEL NERO Grafica europea dell’Ottocento

Tempi sventurati per l’incisione, tempi di degradazione formale e insieme di fortuna mercantile: tra gli spasimi e i capricci dei nuovi acquirenti, e la impudicizia degli editori che spacciano imitazioni surgelate, c’è da rimpiangere i giorni in cui s’era in pochi ghiottoni a saper distinguere tra un esemplare fresco e uno sfiancato, a sorprendere col conta fili le riprese a punta secca o la granitura serica della vernice molle. Di una lastra, allora, si tiravano pochissimi esemplari per gli addetti ai lavori, da scambiare come biglietti privati d’amore o di sfida o come buon peso sulla vendita di un quadro.  Oggi trionfa la copia patinata: s’avvicina all’Arte calcografica come la banda dei Finanzieri all’orchestra della Scala; tanto più concupita quanto più colma di stucchevoli salse da rotocalco e di sofisticazioni finto olio. Questo succedaneo d’autore è diventato prima una moda, poi una assuefazione del gusto, poi un flagello. Al punto che moltissimi Artisti ignorano l’esistenza del torchio a stella, e pensano, magari in buona fede, che incidere significhi passare un disegnino alla rotativa. Sta di fatto che l ‘Arte grafica s’è ridotta ad essere controfigura di sé stessa, e media di una nuova visione imprenditoriale. Paccottiglia per adescare i ceti nuovi al collezionismo. Non è soltanto la perdita di un universo tecnico-artigianale, ma l’agonia di una lingua. C’è un’incisione che non viene incisa? È un prodotto riprodotto che non conserva tracce del travaglio estetico, un insieme di simboli morti che furono vivi su altri fogli, buoni per l’oblio, non per la memoria. Come vi è un sonno profondo e uno leggero così vi sono, nell’Artista, calligrafie e tecniche che maturano molto all’interno, nella penombra della coscienza, ed altre che ne sfiorano la superficie. Se dovessi raccontarmi a uno psicanalista, direi che tutto il mio lavoro è sotto il segno del tagliente, dell’aguzzo. Penso qualche volta d’avere ereditato da mio padre chirurgo la predilezione per gli strumenti precisi: pennelli, matite, pennini capaci di lasciare la traccia di un bisturi. Il bianco del foglio è un campo operatorio? Resta certo che una matita poco appuntita mi paralizza, un pennello grosso mi par buono per il barbiere … Chissà perché la lastra non mi atterriva quanto la tela. Come se la preparazione a cera, l’affumicatura, I’acidazione, l’inchiostrazione, la torchiatura, facessero l’incisore più simile all’operaio che al genio. La Maya desnuda mi sembrava un’impossibile magia, ma i Caprichos difficili, soltanto difficili. A modo mio ero modesto: mi sentivo Artigiano, non Artista. Forse s’impara soltanto quello che già si sa: il Maestro non fa che illuminare l’angolo buio nel quale è celato l’istinto in attesa di diventare idea. Se Bianchi Barriviera mi parlava del nero calcografico come della tastiera di un pianoforte, lo sapevo, lo sapevo …  rispondevo … e poi? …, aspettando, come tutti i principianti la ricetta o il trucco che mi consentissero di comporre subito la grande sinfonia. E poi?  … Poi imparavo dalla guerra, ma non me ne accorgevo … Il rame era introvabile (tutto per le spolette) e Franco Gentilini mi passava gli zinchi di scarto che sgraffignava dalla tipografia del Messaggero. Sul dritto dei cliché si riconoscevano le immagini consuete della propaganda: Rommel che rideva davanti a un carro carbonizzato, il duce dell’anno prima che mirava Alessandria. Li cancellavo con un raschietto, facendo posto ai miei primi paesaggi. Non che fossi sensibile al valore criptoresistenziale di quel grattare, ma ne andavo ugual­ mente fiero; chissà poi che non ci mettessi veramente un’inconscia energia vendicativa. Duro lavoro comunque, da tagliuzzarsi le dita: ti riduci un ecce homo diceva mia madre. Ed io offrivo quelle piaghe sull’altare dell’Arte, insieme all’orecchio tagliato di Van Gogh. Lavoro santo a ripensarci. La mia confidenza col metallo, con le sue diverse risposte, viene forse da quelle ore passate a levigarlo centimetro per centimetro … Il resto dei mesi caldi lo passai a raschiare condottieri assai meno grintosi. Ricordo ancora quanto sudai sulla faccia risorgimentale di Orlando, e su quella avvizzita del re. L’estate finiva nella luce. Ai mesi di Roma nazista devo l’esperienza fondamentale della paura. Non quella nutrita di vaghe mortificazioni e di abbandoni indulgenti dei giovami d’oggi. Intendo l’urto fisico che dal cuore scende alle gambe, e le scuote come corrente elettrica. È l’esperienza più antica e severa del mondo, capace di produrre visioni vividissime e improvvise euforie. Qualcosa che ti rimette in braccio alla pura animalità. Dopo che per mesi ti sei pensato contro il muro di un poligono, t’accorgi d’aver fatto il passo sghembo dei lupi e l’occhio ammiccante dei gatti, attento ai crocicchi e alle uscite secondarie. In quei mesi, alla fine, la paura m’era salita dalle gambe all’Anima, ed era diventata un sentimento vissuto da tutto il corpo, con naturalezza; difficile da descrivere perché pensiero non formulato, ma vivo dentro ogni gesto quotidiano; l’idea che, immersi in una stessa aura fatale, vittime e persecutori, paesaggi e cose, vivi e morti, coprissero ruoli di uguale importanza e uguale necessità. Incidevo di notte, sul tavolo di cucina, l’acido nell’acquaio. Il silenzio della città buia e arresa nel coprifuoco era così intenso, che lo stridere del bulino sembrava un gridare alto, capace di allarmare le ronde repubblichine. Di tanto in tanto andavo a spiare tra le persiane, giù nella strada. Nelle notti di luna tutto aveva il colore dell’acciaio, e i campi mandavano luccichii violetti, come di fuochi fatui. Erano i pochi momenti che la paura cedeva a una quiete così improvvisa e totale, da somigliare all’estasi: io solo sveglio, ancora vivo dopotutto, io solo con un lavoro tutto mio. Se non avessi imparato a perdonarmi i miraggi giovanili, non potrei confessare, adesso, che mi sentivo parte di un corpo oscuro che resisteva, quasi un David che approntasse in segreto la fionda per fulminare Golia. Trrr… Trrr…  la punta graffiava lo zinco. Trrr… Trrr…  nella controluce dell’unica candela accesa i segni brillavano come una tela di ragno nel sole. Che forza improvvisa mi riempiva? Nella iterazione paziente dei gesti nasceva dentro di me una irragionevole pietà per la Città affamata e battuta da bande assassine, per me e per gli stessi assassini; e insieme un rabbioso dispetto per quanto la mano non sapeva ancora raccontare: così lenta rispetto alla velocità delle sensazioni e del loro sublime apparire e dissolversi in un lampo. Avevo fretta, allora, spaventato da tutto ciò che poteva sfuggirmi di quei giorni portentosi; come un fotografo di guerra correvo con le mie lastre dovunque ci fosse qualcosa da vedere: le strade ancora fumanti dopo il bombardamento, le vittime, le carcasse dei vagoni incendiati. E mi sentivo impotente. Non avevo infatti nessun concetto di forma, né la più pallida idea del processo selettivo che libera l’immagine dalla selva degli incidenti superflui. Nella folla che aveva saccheggiato un forno, vedevo centinaia di smorfie, di gesti convulsi, di bocche urlanti, di incongrui sorrisi; e la gente alle finestre, i fascisti che sbucavano dal fondo della strada, la canizza dei randagi eccitati, tutto a fuoco, tutto da disegnare; non c’era un particolare che mi sentissi di sopprimere. I cacciatori pivelli vanno dietro a tutte le piste. Io rimanevo paralizzato dall’enorme rete di sentieri attraenti e tuttavia impraticabili. Mi perdevo nella nomenclatura. Ma c’era una singolare felicità, o entusiasmante afflizione, in quel perpetuo fallimento. L’immediatezza del vedere e del capire ne usciva delusa, ma non scoraggiata. Il sogno di rappresentare l’uomo nella sua totalità, ritratto dentro cui specchiare il mondo con amore o con repulsione, resisteva alle quotidiane catastrofi. Anzi, ne sembrava rinfocolato. Poiché alla fine, anche smarrito nel labirinto delle apparenze sensibili, qualcosa riuscivo a trasferire sulla lastra: certo non il calco fedele della realtà, come pretendevo, ma la sua presenza in negativo; un grumo di segni che dipanandosi poteva forse liberare immagini secche e crepitanti, chiare e corrosive. Quasi che nel bozzolo dei graffi e delle abrasioni io sentissi, assopita, la larva della Poesia. Scrivevo, insomma, parole illeggibili, ma con una calligrafia già perfettamente formata. E formata per sempre direi, se ancora oggi sono costretto a scovare in un roveto di macchie e tratti filiformi il profilo delle cose. Pochissime incisioni sono scampate ai bombardamenti del Marzo e dell’Aprile del ’44. Oggi, a rivederle, paiono fotografie di parenti tenute per troppo tempo nel portafoglio, ovvie per usura. Ma non c’è dubbio che fossero un giuoco preso terribilmente sul serio, e quindi destinato a trasformarsi in vizio, o in una malinconiosa infermità dello sguardo. Anima dell’Anima del mio lavoro fu per anni il reticolo dell’acquaforte; substrato nascosto del colore, o sua natura sdoppiata, rovello sordo della matita. Imparavo a incidere, dunque, e insieme imparavo a dipingere dalla incisione. Due tecniche in parallelo che si rimandano segnali, ma che restano incomunicanti. Un disegno può, o deve, tradursi in un quadro; l’acquaforte, invece, rifiuta ogni altro sviluppo che non sia quello rigidamente imposto dalle sue leggi, dalla sua peculiare dialettica di pieni e di vuoti, di luci e di ombre … Chiuso in una sua avara sufficienza, è un codice che non sa corrispondere ad applicazioni diverse. C’è tuttavia una particolare vibrazione restituita dalla griglia calcografica che è colore. Si potrà dire colore buio, esaltato da un sole nero? Sembrava a me, neofita, che da quello alla cromia spiegata della tela non ci fosse che un passo. Era così: ma scavalcava un abisso. E avrò poi, dopo tanti anni, imparato a saltare il baratro? Non ci giurerei. Né ho doti critiche per accertare se mi scalda di più il sole dj Van Gogh o quello tenebroso di Rembrandt. Ma lo stile non è un dosaggio di sostanze coerenti. Spesso è una miscela impossibile, un desiderio assurdo. Ora l’esperienza grafica ha nutrito la mia Pittura, e ne è stata nutrita: senza questo scambio-conflitto tutto il mio lavoro si sarebbe svolto nella quiete di un laboratorio. E quieto non è stato. Il talento non è una garanzia, ma un rischio.

 


 

‘800 I COLORI DEL NERO Grafica europea dell’Ottocento opere

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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